Capita di pensare che la maggior parte delle cose fatte fino ad oggi, nel lavoro, nelle relazioni, in famiglia, non abbiano più il senso che gli abbiamo attribuito nel passato. Facciamo progetti, coltiviamo desideri, abbiamo aspettative che, quando soddisfatte, non ci danno la gioia e la soddisfazione sperate né ci fanno sentire sicur*, soddisfatt*, appagat* e ci ritroviamo incapaci di pensare in termini positivi. Allora proviamo a trovare spiegazioni alla «non felicità». Tra queste spesso al primo posto staziona «il non essere come vorremmo», il «non piacersi». Cambiare allora, ci sembra che non sia un’opzione, ma l'unico modo per compensare a scelte fatte che ci hanno condotto proprio dove non saremmo mai volut* andare. Poiché viviamo anche di relazioni, quando le cose non vanno come ci saremmo aspettati, un errore che in buona fede si commette spesso, è pensare che, la maggior parte delle responsabilità rispetto al fallimento provato, sia attribuibile a qualcuno esterno a noi e pertanto, per migliorare le cose (o risolvere conflitti) sia giusto cambiare l'altro, le persone con cui tessiamo relazioni sia professionali, che intime. In realtà possiamo solo agire sul nostro comportamento e gli altri non devono cambiare (non per noi almeno) a meno che non lo desiderino. L'illusione di poterlo fare è alla base di molti conflitti nella coppia, tra genitori, figli e non solo. Come mai cambiare, pur riconoscendone il bisogno, è difficile? Intanto più ancora che cambiare è difficile accettarci per come siamo. Ci viene più facile incolpare gli altri, attribuire a persone, eventi, situazioni, la responsabilità delle nostre delusioni. Un buon inizio verso il «nostro cambiamento» è accettare che il mondo non ci sia debitore. Nel momento in cui da adulti reclamiamo il diritto di compiere scelte, dovremmo anche essere pronti ad accettare che agli altri lo facciano senza che questo coincida necessariamente con i nostri desideri. Quindi se nostro figlio decide di fare il meccanico quando noi siamo stimati professionisti oppure l'architetto quando abbiamo uno studio ben avviato di qualunque altra professione, dirci che abbiamo figli non riconoscenti è solo un modo per non riconoscere all'altro il diritto di scegliere. L'idea di cambiare spesso ci piace solo quando il concetto rimane nella nostra fantasia. Eppure nessuno meglio di noi può sapere di che cosa abbiamo bisogno, cosa ci manca, come potremmo ottenerlo, per quale ragione desideriamo così tanto una determinata cosa. Cambiare spaventa. Ci allontana dalle certezze, ci costringe a intraprendere muovi percorsi, a sentirci inesperti, novelli, coraggiosi. Inoltre tendiamo a pensare che cambiare sia qualcosa di visibile nell'immediato. Farlo invece richiede tempo, pazienza, costanza. Bisogna mettere in conto la possibilità del fallimento, e allora non rimane che dirci che l'aver fallito una volta, non significa che succerà ancora. È come imparare ad andare in bicicletta senza rotelle. La prima volta potremmo anche cadere, ma alla fine pedalare in autonomia è possibile. Un vero cambiamento è fatto di passaggi, di fasi, di momenti. Ognuno decide quando e come intraprendere il viaggio. I bagagli sono la costanza, la fiducia in sé, la voglia di sperimentare nuove cose, l'accettare di essere realisti sulle aspettative, darci la possibilità di credere in ciò che vogliamo, osare la relazione con l'altro invece di prenderne costantemente le distanze, assumersi le responsabilità di parole e azioni potrebbero essere il punto di partenza.