Autostima è un termine ormai inflazionato.
Diventato quali il capro espiatorio di disagi, incomprensioni e conflitti è definibile come una valutazione continua e costante che diamo di noi, del nostro modo di essere e di fare che si costruisce attraverso processi cognitivi ed emotivi e che risente in modo significativo del modo in cui gli altri ci vedono, ci giudicano, si relazionano con noi.
Da cosa potremmo partire per capire se rientriamo nella rosa di coloro che non ne hanno? Le risposte sono molte.
Proviamo a partire dal dare una risposta ad alcune domande:
quando penso a me, riesco a farlo senza giudicarmi?
riesco a comprendere, definendolo, come sono, come gli altri mi vedono, come vorrei essere?
le persone che frequento, le attività che faccio, mi fanno stare bene oppure mi lasciano sempre addosso la sensazione di aver fallito o perso tempo?
sul lavoro, se devo promuovere e far valere una mia idea, riesco a esprimere ciò che vorrei? Oppure lascio che siano accolte sempre le richieste degli altri?
Il primo a introdurre in ambito psicologico il concetto di autostima fu, nel 1965, un sociologo americano: Morris Rosenberg e da allora molto si è scritto e si detto sull'argomento fino a trasformare un aspetto di noi, che può diventare gravoso da accettare e gestire, a una etichetta elargita a volte con estrema semplicità.
Oppure distribuendo consigli del tipo: dovresti credere di più in te stessa, avere più fiducia nelle tue capacità, non ascoltare chi ti sminuisce...
Ma chi ha «problemi di autostima» queste riflessioni le ha già fatte e trovarsi impotenti davanti ai suggerimenti ricevuti, perché se abbiamo smesso di credere in noi (oppure non ci abbiamo mai creduto) non abbiamo bisogno di consigli ma di altro.