Comunicazioni consapevoli

Comunichiamo per essere in relazione con qualcuno.

La modalità con la quale lo facciamo dovrebbe permetterci di dare all’interlocutore (o agli interlocutori) informazioni necessarie, esaustive ed utili a far comprendere ciò che vogliamo sia compreso. 

Erroneamente a quanto la maggior parte delle persone pensa, la comunicazione verbale (attraverso il dialogo, il confronto e in alcuni casi il conflitto), è responsabile solo in minima parte dell’efficacia comunicativa, poiché il resto è affidata al non verbale (circa il 93% in ogni comunicazione), ovvero alla distanza scelta rispetto a chi ci ascolta, al tono della voce, alla postura, alla mimica, al modo in cui ci «muoviamo» o stiamo fermi nello «spazio comunicazionale». 

Quando parliamo, oltre al contenuto dell’informazione che vogliamo dare, esprimiamo aspetti di noi, di cui non sempre siamo completamente consapevoli: rabbia, delusione, apprensione, felicità, aspettativa… ed instauriamo così relazioni che, agli occhi dell’altro, possono apparire sincere, difficili, insoddisfacenti. 

Un’altra imprecisa idea che molti hanno, a proposito della comunicazione, riguarda la responsabilità di chi parla, rispetto al dovere di chi ascolta, di capire sempre tutto quello che viene detto in modo chiaro, corretto, opportuno. 

Per comunicare efficacemente occorre però aver maturato, a livello introspettivo, l’obiettivo reale e concreto del contenuto espresso, ricordando che un messaggio è fatto di contenuto e di relazione. 

Se per il primo aspetto può essere utile trovare una modalità di espressione consona alle competenze cognitive e formative di chi abbiamo davanti (non passiamo parlare a un bambino di 5 anni come parleremmo a un filosofo di 90), per l’aspetto della relazione, potrebbe essere più complesso comprenderne il meccanismo. 

La prima tappa sta nel capire «veramente» cosa proviamo rispetto a quello che stiamo dicendo. 

Immaginiamo di trovarci in compagnia di una persona spocchiosamente egocentrica che non perde mai occasione di elencare le magnifiche cose che fa nella vita e di essere nella situazione di non aver alcuna intenzione di ascoltarla ma nell’impossibilità (per svariate ragioni) di evitarla. 

Una soluzione sarà quella di «starla a sentire» e interloquire con lei con espressioni e monosillabi che socialmente dovrebbero avere la funzione di «sopportare» l’altro ma che a livello non verbale, invece, comunicheranno intensamente cosa state pensando di lui/lei. 

Chi ascolta dunque si troverà di fronte a un comportamento contrastante e incongruente dove, se è un po’ esperto di comunicazione, emergerà la parte insofferente accanto a quella meno autentica dell’ascolto. 

Se la persona in questione poi è una di quelle che fa parte del nostro blocco di conoscenze, per esempio lavorative, è probabile che registrerà questo nostro modo di «fingere» nella relazione e sceglierà il modo successivo di stare con noi: 

1.   Non è interessata a ciò che dico, ma non ha il coraggio di dirmelo quindi smetto di parlare. 

2.   Non è interessata a che dico perché prova invidia per i miei successi e allora continuo a elencarli, così continuerà a sentirsi «una nullità».

Sperare di avere tra la rosa dei conoscenti una persona del primo esempio è un po’ utopistico. Le persone che «sentono» di non essere ascoltate, raramente sono disponibili con chi avrebbe potuto ascoltarle e lo non lo ha fatto. 

Ecco allora che nella comunicazione fa capolino un altro importante tassello: la capacità di riconoscere e gestire la componente emozionale

Sapere cosa si sta provando quando si è in relazione con qualcuno consente di scegliere tra la gamma di strumenti che abbiamo a disposizione per essere parte attiva nella conversazione. Scegliendo modalità e contenuti adatti alla comunicazione e prevedendone gli effetti sull’altro ma soprattutto su di noi.