Il mio dolore che non vedi.

È un dolore nel dolore, quello che si prova quando la sensazione di non essere visti, ascoltati, accolti e compresi, si fonde con la convinzione che non si riesca a usare parole giuste per la propria sofferenza.

A volte è più semplice trovare soluzione al dolore fisico che a uno emotivo, perché quello dentro di noi ha forma e voce solo per chi lo prova.

La sofferenza interiore compromette il senso di identità.

Se sono depressa, non sono una buona moglie, madre, figlia, lavoratrice. Tradisco le aspettative che altri hanno costruito per sé, su di me.

La mia tristezza senza confini non ha «ragione», per chi mi sta accanto, di esistere. Come posso io lamentarmi quando ho cose che gli altri non hanno?

L'inadeguatezza, la sensazione che nulla possa andare come vorremmo generano ansia.

E l'ansia anche per una solitudine che nasce dall'impossibilità di comunicare ciò che sentiamo, ribalta la nostra visione e percezione del contesto in cui ci muoviamo.

A volte, a quel dolore che non trova espressione, si aggancia anche il sospetto di vivere una vita non nostra. Nella quale abbiamo taciuto più detto, soffocato più che fatto emergere.

Ci sono le parole, dentro di noi, che hanno plasmato il nostro modo di stare, di essere, di proporci, soprattutto di giudicarci e lasciarci giudicare

  • Sono io quella che sbaglia, lui fa del suo meglio! 
  • Me lo dicevano anche i miei genitori: non sono attento, non mi interessa niente di quello che succede! 
  • Sono io quello sbagliato, quello da punire, quello che deve cambiare! 
  • Non mi accontento mai, non so apprezzare le cose che ho, dovrei imparare ad accontentarmi.

Sono ingiunzioni che arrivano dall'infanzia, dalla famiglia, dalla scuola, dai contesti lavorativi. Sono cerotti che possiamo usare per tamponare ferite che, nel migliore dei casi lasceranno inestetiche (per la parte emotiva di noi) cicatrici.

Perché è facile trovare chi dice: dimentica! Lascia perdere! Non te la prendere! 

Mentre è raro trovare chi riesce a prendersi cura e stare con il dolore degli altri.

Non essere sempre infelici è un dovere che abbiamo verso noi stessi. Trovare percorsi e persone con cui condividere un viaggio di scoperta di ciò che siamo, ciò che vogliamo, verso cosa puntiamo, può essere una delle modalità per dare il via al cambiamento. Per guardarsi dentro e dare nome alle emozioni, occorre una forza immensa, il coraggio di accettare, di poter scoprire cose di noi, che per molto tempo abbiamo tenuto nascoste nel cuore.

Scappare non conduce in alcun porto sicuro. La fuga diventa un'altra faccia del dolore.

Esprimerlo, guardalo in faccia e confrontarsi con lui, potrebbe essere il primo passo perché come scrisse Romano Battaglia ne La strada di Sin «L'uomo dovrebbe imparare ad affrontare il dolore perché non è tutto da gettare via. C'è un dolore che tormenta e uno che matura. Un dolore che distrugge e un altro che avvisa per tempo di ciò che occorre fare